Brano: [...]ie città italiane a fine Cinquecento) e dei successivi destinatari, sino agli interventi critici moderni, da De Sanctis nel 1870 a Fubini nel 1967, è apparentemente una storia pacifica, di apprezzamento e godimento « evasivo » di un testo considerato perfetto e armonioso. Qualche problema l'hanno incontrato — e già questa doveva essere una spia — coloro che hanno tentato di farla rivivere sulla scena. Un colpo di timone risoluto l'ha dato Enrico De Angelis, applicando all'analisi del testo alcuni concetti adorniani. L'Aminta, egli scrive, « per definizione non può essere una tragedia, ma per la concezione che il poeta ha della sua materia, non potrebbe invece essere altro che tragedia. Ne nasce una tensione che è quanto mai ricca di risultati ». Nell'opera di Tasso entrano le contraddizioni oggettive della società del suo tempo, e in particolare la contraddizione fra una concezione dell'amore come felicità materiale e corporea e una dell'amore mistico che ha terrore del corpo. « Tutta la sensualità di Aminta è costretta ad esprimersi indirettam[...]
[...]ublimazione di impulsi repressi. » La conclusione logica della storia sarebbe la tragedia e la morte di Aminta (finale dell'atto quarto), ma l'ideologia controriformistica e le esigenze della corte impongono un finale diverso: nell'atto quinto « l'azione riparte da zero: su una scena che era divenuta funerea » si svolge un artificioso balletto di equivoci che si conclude con le nozze di Silvia e Aminta.
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Le brevi, dense pagine di De Angelis (che si leggono sotto forma di Postilla del traduttore in appendice alla Teoria estetica di Th. W. Adorno, Torino, Einaudi, 1975, pp. 5404
e 5914) mi pare che contengano alcune brillanti intuizioni e che indichino la direzione giusta per l'interpretazione del testo. E tuttavia il discorso di De Angelis, inevitabilmente sommario e volutamente polemico, soffre di alcune manchevolezze:
a) non si misura con la lettura piú fine, esperta e circostanziata prodotta da un critico che pur si allinea all'interpretazione tradizionale, quella di Mario Fubini (« Aminta » intermezzo alla tragedia della «Liberata*, pubblicata come introduzione all'edizione dell'Aminta, Stamperia Tallone 1967 e anche come saggio a sé sul « Giornale storico della letteratura italiana » 145, 1968, pp. 3852);
b) nello stabilire l'alternativa fra la tragedia che l'Aminta non è ma dovrebbe essere e la favola pastorale che è co[...]
[...] pubblicata come introduzione all'edizione dell'Aminta, Stamperia Tallone 1967 e anche come saggio a sé sul « Giornale storico della letteratura italiana » 145, 1968, pp. 3852);
b) nello stabilire l'alternativa fra la tragedia che l'Aminta non è ma dovrebbe essere e la favola pastorale che è costretta a essere (un'alternativa in qualche modo parallela a quella posta da Fubini fra la « tragedia » della Gerusalemme e l'« intermedio » dell'Aminta) De Angelis non esplora a sufficienza le caratteristiche intrinseche della favola pastorale, una forma (che possiamo forse, adattando la terminologia di Freud e Orlando a un intero genere letterario, giungere a chiamare « forma di compromesso ») nella quale si realizza un particolare modo letterario, quello « pastorale », come è stato ben messo in rilievo da alcuni studiosi (dei quali, per brevità, ricordo solo Leo Marx, The Machine in the Garden. Technology and the pastoral Ideal in America, New York, Oxford University Press, 1974);
c) nei suoi rinvii a precise caratteristiche della storicità del testo[...]
[...]à, che pure dimostra di essere sin troppo esperto di quella civiltà (« il secol d'oro è questo,/ poiché sol vince l'oro e regna l'oro » — e parla dell'oro come denaro e non di quello metaforico), aveva indicato come suo principale nemico proprio colui che aveva insegnato « primo a vender l'amore » (v. 783); ma il satiro appunto, creatura ambigua anche lui, è destinato nel dramma a fare una ben magra figura.
4. Non mi pare che si possa dire, con De Angelis, che c'è un movimento iniziale della vicenda verso la tragedia che a un tratto si ribalta e conclude in favola pastorale; non c'è,
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per dirla schematicamente, un prima e un poi (da mettere in rilievo con un improvviso salto nella recitazione o nell'uso delle luci e di altri espedienti); ma si può dire, usando un modello analogo a quello di Orlando, che in tutto il testo, e nella sua interna contradditorietà, ci sono un sopra e un sotto, il numeratore e il denominatore di una frazione. Al numeratore si devono riportare molte delle posizioni esplicite del coro, quelle di alcuni [...]
[...]tono stilistico generale del testo, cosí bene analizzato da Fubini, un tono stilistico per il quale si può anche usare, volendo, la formula spitzeriana di klassische Dämpfung, perché certo classicistico è il modello stilistico dell'opera, come attenuazione di ogni eccesso, con temperamento fra toni diversi, imitazione di molti autori senza esibizione e con abile impasto.
Al denominatore appartengono invece alcuni degli elementi messi in luce da De Angelis: la vita del corpo, le sue esigenze, l'aspirazione ad appartenere alla natura piú selvaggia. Il satiro incarna, sia pure in modo sventurato, queste istanze, ma esse affiorano in tutti i personaggi, e persino in Dafne, con un senso di rimpianto, e certamente in Silvia, che le selve
e i satiri, e addirittura le piante, vorrebbero catturare e far propria, in omaggio al destino stesso racchiuso nel suo nome, ma che sempre sfugge a questo destino.
In realtà tutto il dramma ci dice — come del resto ogni favola pastorale — che non è piú possibile uno stato di totale e ingenua salvatichezza, di lib[...]